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Lo Spettro di Marx: Il rischio di un socialismo senza identità.

di Giovanni Piglialarmi.

[…] Gli uomini possono, dopo aver evocato con angoscia gli spiriti del passato, prenderli al loro servizio; i fantasmi scompariranno dopo la vittoria della rivoluzione, quando i morti seppelliranno i loro morti. […]

Karl Marx, Lineamenti fondamentali per la critica dell’economia politica

[…] Le rivoluzioni hanno aperto la strada a guerre civili e a guerre tra Stati, portando solo catastrofi, anche se camuffate, talvolta, da momentanei trionfi. E hanno assunto caratteri sempre più antioccidentali. Questa tendenza si è rafforzata negli ultimi decenni del Novecento e oggi la rivoluzione è l’obiettivo delle forze contrarie all’Occidente, sia al suo interno che all’esterno. Con un sincretismo di motivi ideologici di estrema destra e di estrema sinistra, esse combattono anzitutto la globalizzazione. E’ singolare come molti, che si proclamano assoluti eredi del marxismo, la demonizzino, sotto l’influenza di gruppi “religiosi”, non solo fondamentalisti o islamici. Identificando l’Occidente con Satana, i rivoluzionari cercano di scorgere segnali che preannuncino la battaglia finale …[…]

Aurelio Lepre, Che c’entra Marx con PolPot?

Il comunismo è stato considerato una delle più grandi innovazioni ideologiche degli ultimi secoli; e allo stesso tempo la più grande questione storica dell’età contemporanea. Diverse critiche di pensiero hanno tentato di demonizzarlo, incolpandolo di innumerevoli crimini; ci sono stati sognatori (e ci sono!) che non hanno perso la fede in un futuro comunista; infine, c’è chi si è limitato alla pura osservazione del fenomeno sociale nella storia. Sarà questo il modo più proficuo per analizzarlo? Forse. Ma ancora oggi, la domanda che si pongono i lettori di Marx, gli interpreti della grammatica marxiana, è semplice ma alquanto lucida: che c’entra Marx con PolPot? Questa domanda l’ha posta lo storico Aurelio Lepre. Intitolando così un suo autorevole saggio, che ha ripercorso le tappe di fenomeni storici ricollegati seppur da una banale dialettica storica al filosofo di Treviri, lo storico napoletano ha sottolineato le dissonanze presenti fin dai presupposti di quelli che la storiografia chiama “comunismi reali” e il pensiero di Marx. Socialismo, comunismo sono ideologie che sono state frutto, a volte, di una pura speculazione dialettica. Altre volte ancora si sono macchiate come ideologie mostruose che costringevano l’uomo non all’alienazione dallo sfruttamento,, bensì all’inumanità. Quando Marx ed Engels scrissero il manifesto del partito comunista, stavano lavorando ad un progetto rivoluzionario che aveva una precisa locazione geografica per la sua attuazione: il cuore pulsante dell’Occidente, il centro del mondo, dove la ricchezza si manifestava sotto qualsiasi aspetto. In Germania soprattutto la rivoluzione della classe operaia doveva essere l’esempio di una grande innovazione politica. Ora, tenendo presente le società comuniste che si sono proclamate tali in questo secolo, possiamo notare che l’Occidente è rimasto escluso dalla “trasformazione rivoluzionaria”. Lenin, PolPot, Stalin, Castro, Guevara, i nazionalcomunismi africani sono l’esempio di un comunismo che ha attecchito in luoghi che Marx non solo aveva escluso ma che aveva ben raccomandato di evitare. Perché? Quando Marx inizia la sua battaglia per l’affermazione del comunismo, non ha come presupposto quello di creare un modello alternativo al capitalismo; anzi, cerca di superare la fase capitalistica per liberare l’uomo dalla schiavitù del lavoro. Il mito della classe operaria nasce dal fatto che il filosofo individua proprio in essa la capacità di impossessarsi dei mezzi di produzione. Dunque la società comunista sembra una proiezione futura, un netto superamento della società capitalistica per una maggiore redistribuzione della ricchezza tra gli uomini (diverso quindi dal capitalismo di stato). E tale cambiamento si sarebbe potuto realizzare solo dove la ricchezza imperava: ci troviamo in piena rivoluzione industriale e l’Europa ne è protagonista. La periferia del mondo, come la definisce Engels, deve essere l’ultima tappa della rivoluzione, un punto di arrivo e non di inizio, non la partenza. Altrimenti si rischierebbe di usare il comunismo come un mezzo da parte del popolo per debellare un semplice dittatore, mischiandosi con una vera guerra civile. Successivamente però l’inseparabile amico di Marx muta la sua opinione per diversi avvenimenti: Marx era morto nel 1883 e già due anni dopo si inizia a respirare aria di crisi all’interno dei movimenti comunisti europei; c’era incertezza, il maestro era morto e ogni partito inizia a ritagliarsi la propria autonomia di pensiero però senza mai trascurare la fede marxista. Cosa accade in questo periodo? Iniziano a sorgere le prime “autonomie comuniste” che in tutto o in parte sfuggono al messaggio di Marx. Le prime divergenze tra Marx e i suoi “successori” si rintracciano già nell’idea di stato. La rivoluzione comunista cancella ogni forma di proprietà privata, e lo strumento “tecnico” di cui servirsi per rendere possibile tale rivoluzione è la socializzazione di mezzi di produzione e di scambio. Si è attribuito a Marx, per un certo periodo di tempo, una sorta di “revisionismo”, che si pensava volesse andare a sostituire con la sostanzialità una democrazia ancora formale dello Stato, ma a questo proposito Marx si esprime chiaramente dicendo che il compito del proletariato non è quello di “conquistare” la macchina borghese, manovrandola al fine di ottenere sempre maggiori profitti, bensì quello di spezzarne o distruggerne i meccanismi istituzionali di fondo.

“Lo Stato è la forma in cui gli individui di una classe dominante fanno valere i loro interessi comuni” (L’ideologia tedesca)

“Il potere politico è il potere di una classe organizzata per opprimerne un’altra”
(Il Manifesto)

Come ha notato Norberto Bobbio, lo Stato, per Marx, è, sì, una macchina, ma non è possibile per tutti utilizzarla a proprio piacimento per raggiungere i propri scopi, in quanto ogni classe è portata, secondo il materialismo storico, a forgiare una macchina statale secondo le proprie esigenze. Tale rifiuto delle forme istituzionali dello Stato prende corpo nella dottrina della “dittatura del proletariato”. La miglior forma di governo è, infatti, per Marx, quella che avvia il processo di estinzione di ogni possibile forma di governo e consente, cioè, la trasformazione della società da statale a non statale. Tale forma di governo, assolutamente esemplare, corrisponde la fase di uno Stato denominato di “transizione” (da Stato a non-Stato, chiaramente) ed è, dal punto di vista del dominio di classe invece, in vista di una società concepita come “società fondata sulla lotta di classe”, quello del periodo della “dittatura del proletariato”. Per dirlo con le stesse parole che Marx usa:

“Tra la società capitalistica e la società comunistica vi è il periodo della trasformazione rivoluzionaria dell’una nell’altra. Ad esso corrisponde anche un periodo politico di transizione, il cui stato non può essere altro che la dittatura rivoluzionaria del proletariato.”
(Critica al programma di Gotha)

Marx propone dunque un’idea di Stato che rappresenta solo una dimensione storica di transizione, verso il superamento dello Stato stesso. Egli vuole arrivare a teorizzare quella forma di comunismo autentico, basato sulla totale abolizione della proprietà privata, distinguendolo da quello “rozzo” che invece estende la proprietà privata a tutti. L’uomo del comunismo non deve più essere l’homo oeconomicus, ossessionato dall’avere, ma l’homo novus, capace di intrattenere un rapporto poliedrico con la realtà e con gli altri:

“In una fase più elevata della società comunista, dopo che è scomparsa la subordinazione asservitrice degli individui alla divisione del lavoro, e quindi anche il contrasto fra lavoro intellettuale e fisico; dopo che il lavoro non è divenuto soltanto mezzo di vita, ma anche il primo bisogno della vita; dopo che con lo sviluppo onnilaterale degli individui sono cresciute anche le forze produttive e tutte le sorgenti della ricchezza collettiva scorrono in tutta la loro pienezza, solo allora l’angusto orizzonte giuridico borghese può essere superato, e la società può scrivere sulle sue bandiere: Ognuno secondo le sue capacità; a ognuno secondo i suoi bisogni.”
(Critica del programma di Gotha)

Ecco profilarsi l’attesa società comunista: senza divisione del lavoro, senza proprietà privata, senza classi, senza sfruttamento, senza miseria, senza divisioni fra gli uomini e senza Stato.
Quale differenza con il sanguinario PolPot? La formazione di Saloth Sar avviene in Francia, presso una delle Università più prestigiose della Capitale francese. Lì entra in contatto con circoli culturali socialisti dove inizia ad apprendere le prime nozioni ed a rendersi protagonista di non facili dibattiti. La sua origine orientale e la sua cultura prevalentemente improntata su di una società arcaica non permettono la piena adesione al mondo occidentale. Quando ritorna in madrepatria, PolPot non fa altro che iniziare un programma come risposta, come sfida, come alternativa all’Occidente. Era stato in Francia e sapeva cos’era l’Occidente in quegli anni, 1953. Una continua tensione tra le forze imperialiste, come le definisce Paul Sweezy, e le forze anticapitaliste. La sua formazione culturale sul socialismo oscilla tra l’estrema realtà e la ferocia dei dittatori comunisti. E’ stato allievo di J.P. Sartre ed e stato per un anno insieme ai marxisti del Maresciallo Tito. Tra le prime “operazioni” che il dittatore cambogiano compie, figurano la formazione di una milizia che sventola le bandiere del comunismo cambogiano: i Khmer rossi; la piena soppressione di ogni logica di proprietà privata; la distruzione dei centri urbani per preferire la campagna; la soppressione della moneta. Quale logica dietro tutto ciò? PolPot sosteneva che per abbattere definitivamente la proprietà privata bisognava minare ogni sistema che permettesse anche il semplice pensiero di essa (memorabile è una sua dichiarazione dove sosteneva che per abbattere la proprietà bisogna distruggere anche il modo di pensare dell’uomo, dunque i pensieri, bisognava cancellare dalla mente l’espressione “questo è mio”). La città andava distrutta perché favoriva la creazione di mercati e quindi di valori di scambio. La moneta altrettanto perché permetteva al singolo di espropriare di qualsiasi bene il prossimo. La campagna rappresentava la forma di isolamento dell’uomo che, non potendo interagire a pieno con tutti, non favoriva il complotto e concentrava le sue forze solo sul lavoro: I frutti del lavoro dovevano essere restituiti allo stato e trattenere per sé solo il minimo vitale. Lo Stato era il punto di arrivo e di inizio della società cambogiana istituita da PolPot. Ricollegandoci alla concezione di stato di Marx esposta pocanzi, notiamo notevoli dissonanze. Non superiamo lo Stato, ma lo rafforziamo fino a schiacciare la società stessa. Nella “Discussione sulla questione del libero scambio” del 1848, Marx espone quanto segue:

“L’abolizione delle leggi sui cereali in Inghilterra è il più grande trionfo che il libero scambio abbia riportato nel XIX secolo. In tutti i paesi quando i produttori parlano di libero scambio essi si riferiscono principalmente allo scambio di cereali e materie prime in generale. Colpire con dazi protettivi i cereali stranieri è infame e significa speculare sulla fame dei popoli. […]In generale però, ai nostri giorni, il sistema protezionista è conservatore, mentre il sistema del libero scambio è distruttivo. Esso distrugge le antiche nazionalità e porta all’estremo l’antagonismo tra borghesia e proletariato. In una parola, il sistema della libertà di commercio accelera la rivoluzione sociale. Ed è sotto questo profilo rivoluzionario che io voto in favore del libero scambio.”

Da questo estratto possiamo fare diverse annotazioni. La prima è che Marx rispetta il suo pensiero politico, ovvero quello di liberare l’uomo dalla schiavitù dello stato e di liberare il suo lavoro dall’imposizione. La seconda annotazione ci apre gli occhi su un aspetto di Marx che è stato spesso sottovalutato dai diversi pensatori comunisti: oltre all’ideale dell’Internazionale, Marx apre gli occhi sulla globalizzazione e sul libero scambio come rete che colleghi i popoli in solidarietà. E questo riflette il perché il filosofo di Treviri inciti la rivoluzione nell’Occidente, poiché lì v’era allocata ricchezza sufficiente per “finanziare” la svolta storica. Marx è coerente soprattutto con la X tesi su Feuerbach: il punto di vista del nuovo materialismo è la società umana, o l’umanità socializzata. Marx ha sempre compreso, come scrive l’autorevole P. Sweezy, l’importanza cruciale della struttura internazionale del capitalismo, ma lo schema del Capitale e forse ancor di più la sua morte prima del completamento dell’opera, hanno dato origine alla diffusa opinione che Marx abbia considerato di secondaria importanza il carattere internazionale del sistema capitalistico. Ha dato la sua importanza a tale fenomeno perché ha tentato attraverso l’internazionalizzazione del comunismo di dare una riposta a chi sosteneva il socialismo di bandiera. Il capitalismo internazionale era l’insieme dei capitalismi nazionali che attraverso una grande spesa civile e soprattutto spesa militare difendeva i propri primati e possedimenti. Tale tesi vale per l’impero inglese, spagnolo, portoghese e tutte le forze europee che hanno dominato la scena geopolitica intercontinentale. La logica che teneva insieme i capitalismi nazionali era gerarchica e permetteva in qualche modo alle società supreme di controllare le società intermedie fino alle società totalmente sfruttate. Queste ultime o lasciavano decorrere il processo di sfruttamento o rispondevano con una rivoluzione “pseudo comunista” mischiando il pensiero volgare di un comunismo decaduto al tribalismo locale (i comunismi africani ne sono l’esempio. Non hanno mai superato la fase del comunismo primitivo, del “mettere in comune”). Invece come poteva il comunismo internazionalizzarsi dopo la morte di Marx? In nessun modo. Lenin, che dal canto suo si era concentrato solo sul superamento del capitalismo e mai a spezzare definitivamente la divisione del lavoro tanto criticata da Marx, aveva riposto il destino della Russia nelle mani di un grande internazionalista come Trocky. Ma Stalin, che spezza definitivamente il sogno di un comunismo russo che si aprisse all’Occidente continuando il cammino della rivoluzione, procedeva verso l’orientalizzazione del comunismo tanto da diventare realtà politica come esempio, insieme alla Cina, di “società idraulica”. Wittfogel le definì così per spiegare cosa accadeva nelle società, e soprattutto in quelle realtà, dove i corsi d’acqua per l’irrigazione venivano gestite dallo Stato in quanto il singolo era incapace alla gestione del proprio raccolto.

Marx ha impegnato la sua vita a tentare di superare lo Stato. I comunismi reali hanno impegnato tutte le loro forze per assediare il potere del controllo e sopprimere il sogno liberatorio di Marx.
Come conservare Marx, lontano dai populismi volgari dell’antistato?
La Critica del Programma di Gotha rappresenta la vera essenza del marxismo e la sua riflessione sul fallimento di coordinazione tra le varie forze politiche dell’Internazionale. E’ un documento basato su una lettera di Karl Marx scritta nel maggio del 1875 alla fazione Eisenach del movimento socialdemocratico della Germania, con cui Marx e Friedrich Engels erano in stretto contatto. Era in atto il congresso SAP. (il partito socialdemocratico tedesco degli operai)
In tale saggio Marx rivolge una critica al piano d’azione proposto dal partito operaio tedesco per il programma di Gotha. Le principali critiche di Marx al programma sono principalmente rivolte alle posizioni lassalliane dello stesso (Lassalle non abbandonò l’ideale nazionalista, che minava il pensiero filo-internazionalista, per aderire pienamente al marxismo trovano in Bismark la vera essenza del cambiamento). Si tratta inoltre dell’unico testo in cui Marx cita la dittatura del proletariato come primo periodo della rivoluzione, dittatorio per la necessità di difendere quest’ultima. Nello stesso, tra le altre cose, criticava la tendenza a considerare i lavoratori solamente come “tali”, tutti uguali, senza considerare le loro diversità in quanto individui ed esseri umani. A questo proposito vi è nel testo una critica ad un articolo del programma che vorrebbe retribuire i lavoratori nell’ambito di uno stato socialista secondo ciò che essi producono, ovvero secondo parametri capitalistici, mentre Marx sostiene che a ognuno si debba dare “secondo il suo bisogno”.

Giovanni Piglialarmi

Plus Ultra 2011: Riflessioni dal campo.

di Claudio Landi
Avevo voglia di ritirarmi per un po’ di tempo con gli amici di componente e trascorrere con loro dei giornidi intensa interazione sociale, culturale e ricreativa. Per questo motivo ho deciso di partecipare al secondo campo “Plus Ultra” nella suggestiva location della Valle dell’Aniene.  Era, ed è ancora, fortissimo il desiderio di decifrare e carpire le pulsioni ideali dei ragazzi che, come me, appartengono a quest’area “speciale” della destra italiana scherzosamente denominata “destra pezzente”, nome che condivido in pieno.
Dei giorni meravigliosi, che ricorderò a vita.

Il dato
importante che ho evinto dal “ritiro sociale” di Percile è quello che la voglia di mettersi in gioco e rivoluzionare l’ordine costituito del partitismo odierno è tanta. Con chiunque parlassi, dal palermitano al milanese o dal simpatizzante al dirigente nazionale, sono riuscito a stabilire dei punti di incontro che sarebbero capaci di ribaltare la triste situazione attuale con un nuovo, fortissimo e travolgente vento sociale.

Quasi nessuno confida, ormai, nella riuscita del progetto PdL . Peggio ancora se parliamo di costituente Popolare (bene Alfano su organizzazione e merito, ma per gli ideali non basta fare copia e incolla dal Ppe). Il perchè è evidente, il sentimento che anima le nostre battaglie e che ci rende vivi sotto il punto di vista ideale è, senza alcun dubbio, di matrice socialista. Non negare il passato e dar valora alla memoria significa pure dare risalto alla nostra provenienza dalla grande famiglia socialista evolutasi nel movimentismo fascista che ha dato luogo poi alla frantumazione delle destre italiane dopo la guerra.

L’albero è quello e noi, un ramo rigoglioso di esso. La nostra tradizione non può e non deve confondersi con quella popolare e, quindi, democristiana. Non possiamo, noi sociali, permettere che, tramite meccanismi rappresentativi assai discutibili, la nostra area precipiti in un grande e grosso contenitore popolare europeo.

Compromesso con la borghesia filo-occidentale per sopravvivere alla modernizzazione? Direi di si, ma le nostre battaglie e i nostri ideali insegnano ben altro. Io credo che noi non possiamo appoggiare una causa che non ci rappresenta pur di sopravvivere in un contesto degradato come quello politico attuale. Non accetterò mai l’idea di snaturare il mio ideale in nome di un compromesso di èlites per guadagnarci la sopravvivenza. La nostra cultura ci insegna a vivere, non a sopravvivere!

Al campo alcuni dirigenti nazionali, con una verve iconoclasta che non condivido, hanno avuto premura di eliminare ogni simbolo che richiamasse ad una tradizione neo-fascista o che si avvicini adducendo come scusa il dover creare nuovi simboli, nuove culture.
In primis: ritengo inutile, quindi dannoso, l’intento di un gruppo di persone che, sedute a tavolino, decidono per un simbolo, pianificandolo a dovere o eliminandolo, senza una base di valori che supporti o rigetti tale effige.
Il simbolo è espressione di una comunità in quanto, al suo significato, fa riferimento una costellazione di valori condivisi da una base più o meno ampia, non si può rimuovere se non quando cada, senza volontà di nessuno, in disuso.
In secundis: vogliamo creare una nuova cultura sociale? Intendiamo porre le basi simboliche e valoriali di un nuovo movimento nazionale? Bene, allora procediamo, ereticamente e coraggiosamente, in questa direzione.

Mi compiaccio, stupito, della vicinanza tra gli estremi. Più leggo il pensiero di alcuni militanti rivoluzionari della destra e della sinistra di piombo e più mi rendo conto che tra Evola e Gramsci non c’è un muro insormontabile. Tra Curcio e Concutelli è possibile scorgere, come con altri, una sottile linea di collegamento che ha un potenziale esplosivo non indifferente. Anche nell’ultimo numero del Secolo d’Italia prima della pausa estiva, andato in stampa proprio mentre montavamo le tende al campo, in un bellissimo articolo di Michele De Feudis di recensione al libro “Da Giovane Europa ai Campi Hobbit” di Giovanni Tarantino (pp. 205, € 10,00, edizioni Controcorrente di Napoli), sono presenti forti richiami a questa “tradizione comune” che fornisce la prova evidente della parentela tra le componenti sociali e socialiste.

Le cose che ci accomunano, e che ci fanno rendere conto della eguale provenienza dal ceppo socialista anti-borghese, sono tante e molto affascinanti. Sfido qualunque compagno che avesse partecipato al nostro raduno sociale di non condividere gran parte dei pensieri e delle parole scritte, cantate e dibattute da noi al campo base di Percile. Sfido ancora, chiunque, a fornire una chiara differenza tra Sociali e Socialisti senza arrampicarsi sugli specchi.

Andare più oltre (da qui il nome del campo) siginifica immaginare nuovi scenari inediti ed eretici che oggi sembrano sacrileghi ma che domani possono diventare realmente esplosivi e rivoluzionari. Andare oltre significa rifiutare il compromesso con la parte centro-demo-moderata-borghese della politica italiana. Noi non proveniamo dall’albero del blocco moderato italiano. La nostra tradizione è innegabilmente una tradizione sociale che affonda le proprie radici nel socialismo puro.

Claudio Landi
http://www.claudiolandi.wordpress.com